Lo sport, lo sappiamo, è una straordinaria palestra di vita. Ma non sempre insegna solo a vincere, a collaborare o a rispettare le regole. A volte insegna a restare seduti in panchina. A non essere scelti per una partita. A non sentirsi all’altezza.
Se non gioca, non vale?
“Ciao Maddalena, sono un allenatore di calcio e alleno un gruppo di ragazzi tra gli 11 e i 13 anni. Per forza di cose dobbiamo dividere i ragazzi in base ai livelli di capacità, e anche all’interno dello stesso livello può capitare che un ragazzo giochi più di un altro. Per esperienza, quando si comunica con chiarezza le proprie motivazioni, i ragazzi lo comprendono e lo accettano. Chiaramente, c’è sempre un minimo di delusione, ma il problema nasce spesso dai genitori, che sono quelli che non comprendono e che spesso fanno più ‘casino’…”
Queste parole mi sono state scritte da un allenatore. Una frase semplice, ma che racchiude uno degli snodi più delicati del mondo sportivo giovanile: il tema dell’esclusione.
Perché accade? Come viene vissuta? E soprattutto: come possiamo gestirla per far crescere davvero i ragazzi?
Lo sport, lo sappiamo, specialmente quello giovanile è una palestra meravigliosa per il corpo, la mente e il cuore. Ma non insegna solo a vincere, correre e collaborare. A volte insegna a restare seduti. A non essere scelti. A guardare gli altri giocare. E per un bambino o un ragazzo, questo può fare male.
Quando un figlio resta in panchina o non viene selezionato per una gara, il dolore può colpire anche i genitori: rabbia, frustrazione, delusione… emozioni comprensibili, ma che rischiano di rendere più difficile un momento che, se ben accompagnato, può trasformarsi in una preziosa occasione educativa.
1. Aiutare i bambini a distinguere la prestazione dal valore personale
In ogni attività sportiva — individuale o di squadra — esistono dinamiche di gruppo, criteri di selezione e scelte che gli allenatori devono compiere.scelte che gli allenatori devono compiere. Soprattutto con l’aumentare dell’età e nei gruppi numerosi, non tutti i bambini possono giocare con la stessa frequenza o partecipare a tutte le gare.
È naturale che in un contesto sportivo, in determinati momenti, alcuni ragazzi appaiano più pronti: più coordinati, più veloci, più sicuri. Le scelte degli allenatori, quindi, devono rispondere a criteri legati al gioco, ai ruoli e alla strategia. Ma queste differenze non sono fisse né definitive: con impegno, costanza e allenamento, chi oggi gioca meno può crescere e conquistare più spazio domani. E anche se questo non dovesse accadere, ciò non toglie nulla al valore unico e speciale di ogni bambino.
Marco ha 11 anni e gioca a calcio. Si allena con passione, ma da qualche settimana entra solo gli ultimi cinque minuti. Giulia fa ginnastica artistica: il suo gruppo è numeroso, e non è stata scelta per la prossima gara.
È facile, in questi casi, che un bambino pensi: “Non sono abbastanza bravo”, “Non mi vogliono”, “Non valgo nulla”.
Ma non è così. E sta a noi adulti aiutarlo a leggere correttamente ciò che sta vivendo.
Per il bambino, l’esclusione può assumere un significato molto più profondo: “Non mi hanno fatto giocare, quindi non valgo quanto gli altri”. È un pensiero che fa male e può minare la sua autostima. Giocare meno non significa “valere” meno, ma per i ragazzi questo messaggio non è affatto scontato.
Proprio per questo, il ruolo dell’adulto è fondamentale: deve aiutarli a distinguere il proprio valore dalla prestazione, a capire che anche quando non entrano in campo restano parte del gruppo, continuano ad apprendere, contribuire e crescere.
L’esclusione non è necessariamente legata all’impegno o al talento, ma spesso a fattori esterni e contingenti. Ed è proprio l’adulto — genitore, allenatore o educatore — a dover fare da ponte tra queste scelte e la percezione del bambino, affinché non si trasformino in un giudizio di valore personale.
2. Il ruolo degli adulti: cosa vedono i ragazzi, cosa leggono i genitori
Quando un figlio resta in panchina o viene escluso da una gara, è naturale per un genitore provare dispiacere, rabbia, frustrazione. A volte ci sembra ingiusto, ci chiediamo se il suo impegno venga davvero riconosciuto. E il primo impulso è proteggerlo, difenderlo, magari cercare subito una spiegazione o un colpevole. Ma in questi momenti è importante distinguere il nostro bisogno dal suo.
I bambini spesso capiscono più di quanto immaginiamo. Forse sanno già perché non hanno giocato. Forse non cercano risposte tecniche, ma solo un abbraccio, uno spazio sicuro dove sentirsi accolti.
E così, il messaggio percepito non è più: “Oggi non ho giocato”, ma diventa: “Ti trattano male”, “È ingiusto”, “Non ti capiscono”. Invece di sostenere il figlio nella lettura di ciò che sta vivendo, si crea un conflitto tra famiglia e contesto educativo.
Vediamo con alcuni esempi cosa può succedere:
Dopo una partita, il padre di Luca dice ad alta voce davanti ad altri genitori: “Sempre gli stessi in campo… ma guarda un po’!”
La mamma di Elisa scrive direttamente all’allenatrice: “Non capisco perché mia figlia non venga mai scelta. Cosa ha che non va?”
In questi casi, il rischio è che il bambino — già dispiaciuto — si senta ulteriormente svalutato, o percepisca che per essere “visto” deve necessariamente giocare, performare, primeggiare.
Cosa possiamo fare come adulti?
Il primo passo è ascoltare davvero cosa ha vissuto il ragazzo. Il nostro atteggiamento è fondamentale. Se ci mostriamo agitati, polemici o delusi, rischiamo di trasmettere l’idea che “non giocare” sia una sconfitta, un problema serio. Se invece offriamo ascolto, calma e fiducia, il bambino potrà elaborare l’esperienza senza sentirsi svalutato.
Spesso lui stesso ha già intuito il motivo per cui ha giocato meno, anche se gli brucia. Chiedere con curiosità e non con ansia: “Com’è andata oggi? Come ti sei sentito?” E valorizzare comunque l’impegno, la partecipazione, il coraggio di stare: “Anche oggi hai dato il tuo contributo, anche senza entrare in campo.”
Ricordiamoci che i bambini non hanno sempre bisogno di una spiegazione tecnica. A volte cercano solo uno sguardo che li accolga, una frase che dia senso, un abbraccio che li rassicuri.
Con gli allenatori, è fondamentale mantenere un canale aperto, ma rispettoso e collaborativo. Una domanda come: “C’è qualcosa che possiamo fare anche noi a casa per aiutarlo a migliorare?” è molto più utile di un attacco diretto. Aiuta a creare alleanza educativa, anziché tensione.
3. Inclusione: non significa “tutti uguali”, ma “ognuno con il suo valore”
Essere inclusivi non vuol dire fare in modo che tutti i bambini giochino allo stesso modo, ma significa riconoscere e valorizzare le unicità di ciascuno, anche quando non sono protagonisti sul campo. L’inclusione è un processo che deve avvenire in modo bilaterale: è essenziale che sia l’allenatore che i genitori lavorino insieme per far sentire ogni bambino importante, indipendentemente dal suo ruolo in partita o dalla sua visibilità.
L’inclusione, non riguarda solo la squadra, ma deve partire dal rapporto e dalla comunicazione tra allenatore e genitori, creando un’alleanza educativa che aiuti il bambino a sentirsi sempre parte del gruppo. Se uno dei due attori — l’allenatore o i genitori — non riconosce e valorizza il contributo del bambino, il processo di inclusione rischia di fallire, e il bambino potrebbe sentirsi emarginato, nonostante l’impegno profuso.
Un allenatore potrebbe dire:
“Non sei entrato oggi, ma ho apprezzato la tua presenza e il tuo spirito di squadra. Continui a fare un ottimo lavoro.”
Un genitore potrebbe dire:
“Sono fiero di come sei rimasto lì, a sostenere i tuoi compagni. È proprio questo che conta. La tua presenza è fondamentale per la squadra.”
Quando l’inclusione avviene su entrambi i fronti, il bambino si sentirà realmente valorizzato per ciò che è, non solo per ciò che fa in campo. Celebrare i piccoli traguardi e progressi, insieme al supporto di allenatori e genitori, permette di costruire un ambiente positivo che stimola la crescita e la fiducia in sé del bambino.
Quando un bambino resta in panchina, ma tifa per i compagni, ascolta attentamente le indicazioni dell’allenatore e si impegna negli allenamenti, sta crescendo in modo straordinario. Se da un lato l’allenatore deve riconoscere e apprezzare questo comportamento, facendo sentire il bambino parte integrante del gruppo, anche i genitori hanno un ruolo fondamentale. Devono essere pronti a riconoscere l’impegno del figlio, valorizzandolo e ricordando che la sua presenza e dedizione sono altrettanto importanti, anche senza la visibilità del gioco.
Un altro aspetto importante dell’inclusione è celebrare i progressi del bambino, anche quelli che potrebbero sembrare piccoli, ma che sono segnali significativi di crescita. Se un bambino gioca solo cinque minuti in una partita, non bisogna focalizzarsi solo sul tempo che ha trascorso in campo, ma piuttosto sui miglioramenti che ha dimostrato. Un genitore o un allenatore potrebbe dire: “Rispetto all’altra volta, si vede che sei migliorato, oggi hai avuto più fiducia nei tuoi movimenti!” Oppure “Ho notato che hai mantenuto la calma anche quando il gioco era intenso, è un bel passo avanti!” Questi piccoli traguardi sono fondamentali, perché motivano il bambino a continuare a migliorare, facendogli capire che ogni progresso, anche se non visibile subito, è importante.
È essenziale, però, sottolineare che celebrare i progressi non significa abbassare l’asticella o aspettarsi di meno. Non si tratta di accontentarsi di un impegno minore o di rifiutare la crescita, ma di riconoscere che ogni bambino ha obiettivi differenti e che i traguardi variano in base al momento del percorso in cui si trova. L’importante è che, per ogni bambino, l’obiettivo sia sfidante e motivante, ma realizzabile. Non è questione di rendere il gioco “più facile”, ma di celebrare i progressi nel proprio percorso individuale, riconoscendo il valore di ciascun passo.
4. Rivolgersi (con calma e mente aperta) agli allenatori
Quando ci sono dubbi o difficoltà nel vedere nostro figlio giocare, essere scelto per una gara o ricevere determinati trattamenti, è naturale che i genitori vogliano un confronto. Tuttavia, è importante affrontare la situazione con calma, pazienza e, soprattutto, con una mente aperta. Gli allenatori, infatti, vedono e percepiscono aspetti che i genitori non possono osservare: dinamiche di gruppo, relazioni tra i ragazzi, comportamenti fuori dal campo e, soprattutto, considerazioni tecniche che vanno al di là delle performance visibili.
Gli allenatori spesso gestiscono un gruppo numeroso di bambini, ognuno con le proprie esigenze, attitudini e stili di apprendimento. Questo significa che le loro decisioni non si basano solo su quanto si vede durante una partita o un allenamento, ma anche su aspetti più complessi, come l’equilibrio della squadra, la crescita individuale a lungo termine e la gestione delle dinamiche di spogliatoio. Un giocatore che oggi sembra giocare meno potrebbe essere sostenuto dall’allenatore per sviluppare un aspetto tecnico o comportamentale che non è immediatamente visibile durante il gioco.
Per questo motivo, quando ci rivolgiamo a un allenatore per chiarire una situazione o esprimere una preoccupazione, è fondamentale farlo con la mente aperta, senza essere pronti a giudicare immediatamente. Un approccio con calma e disponibilità favorisce una comunicazione più costruttiva e crea un ambiente di fiducia tra genitori e allenatori.
Quando solleviamo una questione, invece di partire da un’accusa o da una critica, possiamo porre domande che invitino al dialogo e all’approfondimento, come ad esempio:
“Mi piacerebbe sapere come sta andando mio figlio nel gruppo, e se ci sono aspetti su cui possiamo concentrarci anche a casa per aiutarlo a crescere.”
“Cosa posso fare per supportare meglio l’allenamento e il percorso sportivo di mio figlio?”
“Ci sono obiettivi specifici che dovremmo condividere per lavorare insieme sul suo miglioramento?”
L’allenatore ha il compito di fare delle scelte che non sempre coincidono con ciò che i genitori si aspettano o vedono, ma ciò non significa che il suo lavoro non sia valido. Al contrario, una comunicazione rispettosa e costruttiva permette di comprendere meglio le sue decisioni e di offrire il giusto supporto al nostro figlio. Quando i genitori si rivolgono agli allenatori con una mente aperta, dimostrano di essere pronti ad accogliere anche la visione dell’allenatore, riconoscendo che il percorso sportivo di un bambino è fatto di tante sfumature, che vanno al di là del semplice “giocare” durante una partita.
Conclusione: quando lo sport insegna per davvero
I ragazzi non imparano solo dalla vittoria, ma anche da tutto ciò che accade quando le cose non vanno come speravano. La fatica, la frustrazione, la pazienza e il rispetto dei ruoli sono tutti passaggi fondamentali del loro percorso di crescita. Eppure, affinché queste esperienze diventino davvero formative, gli adulti devono essere pronti a guidarli, a far loro comprendere il valore di ogni momento, anche quando non è quello che si aspettavano.
Senza questo accompagnamento, il rischio è che i ragazzi abbandonino, convinti che “se non sono il migliore, allora non vale la pena provarci”. È fondamentale, quindi, che gli adulti siano consapevoli dell’importanza del loro ruolo e della necessità di trasmettere messaggi positivi che non si basino solo sul risultato finale.
In conclusione
Lo sport è uno spazio straordinario di crescita, ma per essere davvero educativo ha bisogno di allenatori che comunichino con trasparenza, e di genitori che sostengano i loro figli con fiducia, senza giudicare.
Il messaggio che fa crescere non è “sei il migliore”, ma “sei importante anche quando non sei protagonista”. Quando questo sguardo viene condiviso da allenatori e genitori, si crea un ambiente che permette ai ragazzi di apprendere e crescere non solo come atleti, ma come persone consapevoli del loro valore. E questo è ciò che fa la vera differenza.



